Molto spesso capita di confrontarsi con qualcuno che “vorrebbe” chiamare uno psicologo: un nostro amico, una nostra conoscente, il nostro partner etc. La persona in questione “vorrebbe” ma poi non lo fa mai.
Magari quel qualcuno sei proprio tu. Se così fosse questo articolo l’ho scritto pensando a te.
Ricordo molto bene quando a 22 anni, ancora studente di psicologia, chiamai per la prima volta uno psicoanalista (si, ho fatto terapia anch’io e no, non ero obbligato da nessun percorso formativo, sentivo di averne bisogno).
L’idea di chiamare uno psicologo, la voglia di chiamare, quel vago senso di “bisogno” di chiamare si era manifestato già da oltre un anno. Per oltre un anno procrastinai quella telefonata e quando, un anno dopo, composi il numero sul mio cellulare ed appoggiai il telefonino all’orecchio ricordo ancora la sgradevole sensazione del mio cuore che pulsava con tutta la sua forza nella mia gola. Ero in pieno attacco d’ansia. Eppure avevo “studiato” bene tutto il discorso di presentazione da fare e mentre lo ripassavo mentalmente il telefono continuava a squillare finchè la chiamata non si interruppe. Il mio analista, in quel momento, era occupato.
Passò un altro mese prima che chiamassi nuovamente. Poi finalmente tutto procedette; ma quella è un’altra storia.
Oggi, ritrovandomi “dall’altra parte” mi sembra doveroso chiarire un po’ la situazione a chi è confuso sull’avvio di un percorso psicologico o psicoterapeutico. La figura professionale dello psicologo, oramai, è ampiamente sdoganata ed è raro trovare ancora pregiudizi del tipo “dallo psicologo ci vanno i pazzi” o banalizzazioni come “è un amico a pagamento”. Poco si è detto, però, su come si inizia un percorso con uno psicologo e su cosa avviene quando decidi di chiamare uno psicologo.
Chiariamoci, aver sdoganato certi pregiudizi non rende affatto più ovvia la telefonata. Chiamare uno psicologo è spesso difficile, così come lo è chiamare un medico quando si crede di aver problemi nell’ambito sessuale o riproduttivo. Sono telefonate ad estranei con i quali ci si pone “a nudo”, privi di tutte le sovrastrutture difensive che abbiamo costruito e che ci proteggono così bene.
Se sei al punto di “voler chiamare” non posso far altro che complimentarmi con te.
C’è una buona notizia però: tanto la chiamata, quanto l’arrivo in seduta, sono momenti molto meno “traumatici” ed “ansiogeni” di quel che ti
stai prefigurando.
Esatto. Ti chiedo scusa per questo ma mi tocca smontare quell’alone di paura, mistero e misticismo che aleggia intorno al telefonare ad uno
psicologo ed al successivo iniziare una terapia psicologica. Di seguito ho stilato un decalogo dei motivi per i quali chiamare uno psicologo è molto più normale di quel che pensi (ed ho lasciato volontariamente il più importante per ultimo).
Mi scuso con te se l’articolo è lungo ma, se sei in quella posizione di “vorrei chiamare” spero gradirai il mio essermi dilungato per darti più informazioni.
Punto primo: lo psicologo è una persona.
Banale penserai. Ti invito però a riflettere sulle implicazioni pratiche della mia affermazione. Ripensa alle telefonate che hai fatto in ambito personale o lavorativo. Una persona a te cara ti chiama in lacrime: come hai reagito? Una persona a te cara ti chiama euforica: come hai reagito? Una persona che senti telefonicamente per questioni lavorative ti sembra giù: com’è cambiato il tuo modo di comunicare?
E’ una tendenza piuttosto umana quella di modellare il nostro stile comunicativo sulla base di ciò che percepiamo dall’altra parte della cornetta al fine di essere accoglienti. Anche i non-psicologi hanno questa capacità, immagina chi le emozioni le tratta per mestiere. Quando avrai deciso di chiamare uno psicologo, dunque, ti troverai a chiamare in primis una persona. Persona che, per tendenza umana, tenderà ad essere accogliente con chi cerca un aiuto, un supporto o semplicemente un’informazione rispetto al suo operato.
Punto secondo: la prima telefonata non è “la terapia”
E’ molto probabile che durante il primo contatto telefonico, ti vengano chieste un po’ di informazioni preliminari ma questo non rende la telefonata un prequel della terapia. Molto spesso lo psicologo, che è una persona ed anche un lavoratore, fa alcune domande per discriminare la motivazione della chiamata e capire se fa capo ad elementi dei quali si occupa o meno (non tutti gli psicologi si occupano di tutto. Io, ad esempio, non lavoro con le tossicodipendenze) in modo da organizzare il suo lavoro. In altri casi si cerca di ottenere informazioni utili a capire quando dare appuntamento alla persona che chiama. Alcuni colleghi, per modus operandi, saranno più propensi a stabilire un “contatto” già dalla prima chiamata, altri meno. Questo dipende dal tipo di approccio (tanto teorico, quanto lavorativo ed umano) del singolo collega.
Credo di non disturbare nessun collega nel dire che la prima telefonata non è la terapia (al massimo, in alcuni casi, è parte della terapia).
Punto terzo: non esiste solo la telefonata
Ci sono colleghi che lavorano in modo più ortodosso e colleghi che lavorano in modo più smart. Se ti rivolti ad un collega di questa seconda categoria, potresti avviare il primo contatto via email, via messaggio whatsapp o altro. Personalmente prediligo il contatto via email poiché consente a chi mi cerca di scrivere di sé con calma e consente a me di rispondere a fine giornata, senza il pensiero di una chiamata “a tempo” in attesa del paziente successivo. A tal proposito, alla fine dell’articolo puoi trovare un form di contatto. Ti basterà scrivere lì per mandarmi una mail oppure usare il form nella pagina contatti
Punto quarto: posso…?
Sfatiamo un falso mito. Il primo contatto non serve solo allo psicologo per acquisire informazioni. Serve anche a te per porre domande al professionista al quale ti stai rivolgendo.
È un tuo diritto porre delle domande se pertinenti al tipo di contatto. Alcune domande più che lecite:
- Dove riceve?
- Si occupa anche di problematiche di questo tipo?
- Lei lavora con minori?
- Lei lavora con adulti?
- Lei lavora con coppie?
- Lei pratica X? (sostituisci ad X il nome di qualche tecnica di cui hai sentito parlare ad esempio ipnosi)
Punto quinto: Quanto costa?
In Italia il discorso dei tariffari dei professionisti è visto spesso come un tabù. È invece tuo diritto chiedere costi, durata delle sedute e frequenza degli incontri. Se deciderai di chiamare uno psicologo, qualora iniziassi un percorso di terapia psicologica, firmeresti anche un modulo di consenso informato dove sono riportate queste informazioni.
Ps. Ricorda che il servizio psicologico è una prestazione sanitaria, la fattura sarà pertanto detraibile come tale.
Punto sesto: il segreto professionale
Sappi che tutto quel che dirai, già dal primo contatto, è protetto dal segreto professionale. A prescindere da come questo primo contatto avvenga.
Segreto professionale vuol dire che lo psicologo, se non espressamente autorizzato, non può rivelare nessuna informazione su di te ad altre persone o, nel caso di colleghi in supervisione, tali informazioni saranno modificate in modo che sia chiaro il tipo di problematica sulla quale si sta lavorando, ma non sia riconoscibile il paziente. Viene spesso inventato un nome di fantasia e modificate tutte le informazioni non strettamente necessarie al trattamento del caso.
Punto settimo: lo scetticismo e la motivazione
Se pensi che una cosa sia inutile, sarà molto difficile fare in modo che abbia dei risvolti positivi. Questo vale per ogni ambito della vita e vale anche quando ti rivolgi ad uno psicologo.
Un po’ di “sano scetticismo” può anche essere comprensibile (tanto nel chiamare uno psicologo, quanto per qualunque altro tipo di servizio), tuttavia non è compito del professionista “convincerti” ad usufruire del servizio che propone (ed aggiungerei, diffida di chi cerca di farlo).
Si possono avere paure, insicurezze, perplessità, dubbi ed affrontarle, probabilmente, sarà proprio una parte del percorso psicologico. Tuttavia sei tu che scegli volontariamente di affrontarle, non sarà il professionista a cercare di convincerti. Sei tu che decidi di chiamare uno psicologo, sei tu che decidi di avviare una consulenza e nessun’altro.
Punto ottavo: e la terapia farmacologica?
Qui la questione è molto ampia, cercherò di semplificarla il più possibile senza banalizzarla.
Ci sono due categorie di persone: chi assume psicofarmaci e chi no. Se fai parte della prima categoria sarebbe utile non farne mistero. Lo psicologo non modifica la terapia farmacologica ma sapere che farmaci stai assumendo può aiutare a comprendere alcuni elementi comportamentali o sintomatologici. Non tenerlo nascosto. Alla fine di una terapia, inoltre, il supporto farmacologico non dovrebbe più essere necessario. Per questo motivo lo psicologo potrebbe chiederti di confrontarsi con il tuo medico o potrebbe guidarti nel farlo o potrebbe semplicemente attendere che sia tu a sollevare la questione. Qui le differenze tra i diversi approcci sono davvero notevoli.
Se, invece, fai parte della seconda categoria, è piuttosto raro che durante un percorso di terapia psicologica ti venga suggerito di iniziare una terapia farmacologica. Questo perché, come ampiamente dimostrato a livello scientifico, l’intervento psicologico riduce la necessità di farmaco. Tuttavia ogni caso è un caso a sé stante e potrebbe succedere che lo psicologo ti coinvolga attivamente nella valutazione di una terapia farmacologica (anche qui, come prima, le differenze tra gli approcci sono davvero notevoli).
Punto nono: mi dia un consiglio…
Anche se molti degli stereotipi sullo psicologo oramai sono stati abbattuti, quello dei consigli sembra ancora permanere. Chiamare uno psicologo e chiedere dei “consigli” su come agire durante il primo contatto non ti servirà.
Premesso che lo psicologo non da consigli, la maggior parte dei colleghi non si azzarderebbe a dare delle indicazioni o delle prescrizioni terapeutiche durante un contatto telefonico senza avere informazioni sufficienti per valutare il caso. E’ della tua mente, della tua salute, del tuo benessere che si sta parlando: concediti del rispetto e datti il tempo di focalizzare ed affrontare le situazioni.
Punto decimo (il più importante): puoi chiamare uno psicologo anche se il tuo problema non ha un nome.
Molti decidono di chiamare uno psicologo dopo aver avuto una diagnosi o dopo essersi fatti “un’auto-diagnosi”. Se avrò il nome della patologia potrò avere anche una cura adeguata.
Tuttavia nella maggior parte dei casi l’auto-diagnosi è errata e, soprattutto, la diagnosi è uno strumento che nasce per permettere ai sanitari di comunicare tra loro, non per etichettare i comportamenti o le emozioni di qualcuno.
Molto spesso, chi si trova nella situazione del “vorrei chiamare uno psicologo” è bloccato proprio qui, nel non avere un nome da poter dare un problema. Dall’assenza di un pezzo da porre nel puzzle in modo da render chiaro allo psicologo che lavoro bisognerà fare.
All’inizio dell’articolo ti ho detto che io stesso ho atteso un anno prima di fare quella fatidica chiamata. Ho fatto proprio questo errore: ho atteso un anno cercando di dare un nome al problema. Di poter dire “dottere la chiamo per QUESTO motivo” salvo poi scoprire che questa era solo la “presentazione” del mio problema. Era la mappa, ma non il territorio.
Ti assicuro, inoltre, che nessun collega, durante un primo contatto, ti chiederà mai “qual è la sua diagnosi?” perché sappiamo bene che ogni persona è squisitamente unica ed affronta in modo unico ciò che le capita.
Se il grosso ostacolo che ti separa dal chiamare uno psicologo è “non so cosa dire”, aggira l’ostacolo: prendi il telefono, chiama e fidati di te perché il pensare è nemico dell’agire.
Io, potessi tornare indietro, non avrei aspettato un anno.
Ti ringrazio per la pazienza mostrata nell’aver letto fin qui. Se nonostante la lunghezza dell’articolo c’è qualche informazione sulla quale vorresti più delucidazioni scrivi pure nei commenti. Prometto di essere molto più sintetico 🙂
Se, invece, non sei tu ad essere nella condizione di “vorrei chiamare ma…” condividi quest’articolo con la persona interessata, potrebbe essere un gesto dai risvolti incredibili.
Dr. Marco Catania
Email: marko.catania@gmail.com
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